Gli Ultimi Giorni della Vita
Nuova Saggezza
Nuova Saggezza
Gli Ultimi Giorni della Vita è un libro in cui Macro crede e tiene particolarmente. È un modo completamente nuovo di avvicinarsi alla morte: il metodo Doula per l’accompagnamento alla fine della vita. Questo manuale spiega come trasformare l’esperienza della morte per renderla rassicurante e addirittura capace di celebrare la vita superando emozioni quali la paura e la disperazione, grazie a importanti consigli professionali e un gran numero di storie coinvolgenti. Ma forse noi potremmo sembrare un po' di parte, ecco perché abbiamo piacere di convidere le bellissime parole che le persone che collaborano con noi hanno speso per questo libro. Nello specifico, le due donne che hanno reso concretamente possibile la lettura di questo libro in lingua italiana, la traduttrice Nicoletta Cherubini e la revisionatrice Maria Palmira Schiavoni.
Redazione Web Macro
Compassione. Basterebbe questa parola, intesa nel suo significato originario, a restituirci il sentimento che permea Gli Ultimi Giorni della Vita: l’«atteggiamento comprensivo e soccorrevole a uno stato penoso», cioè il com-patire, il sentire e soffrire insieme all’altro.
E noi, leggendo le parole piene di rispetto - eppure mai fredde o distanti - del suo autore, capiamo che questo è l’unico modo per accostarci, anche solo col pensiero, alla morte. Spettacolarizzata, dissezionata, esibita in ogni declinazione possibile da romanzi, film e serie televisive ma anche dalla cronaca quotidiana, sembrerebbe una presenza tanto ubiqua quanto ormai banalizzata.
Eppure, quando si tratta della morte, quella vera - la nostra, quella di qualcuno che amiamo, tutto cambia: e paradossalmente diventa indicibile, non raccontabile, impossibile da avvicinare. È questo il grande merito del libro: Henry Fersko-Weiss ci aiuta a non distogliere lo sguardo e ci tiene per mano in questo attraversamento sconosciuto, consolandoci con autentico affetto, con delicatezza, senza retorica, con umana sollecitudine, tramite un progetto individuale creato insieme a ciascuno dei suoi assistiti e che in questo modo diventa un vero e proprio rito condiviso.
Un sostegno emotivo e concreto, per il morente e per i suoi cari, in grado di attribuire significato e far emergere il dolore, le paure, i sentimenti negati o nascosti ma anche - e forse inaspettatamente - gioia, calore e bellezza da un passaggio naturale ma tuttora pieno di mistero.
- La revisionatrice Maria Palmira Schiavoni
Quante volte ci è accaduto di passare davanti al sagrato di una chiesa durante un funerale e di provare una stretta al cuore al pensiero di essere protagonisti di un simile scenario. Volti scuri, posture affrante, sguardi assenti chiusi nel dolore della perdita, un corpo racchiuso in una bara. I feromoni della paura lì si sono già attivati, inviando potenti segnali capaci di creare intorno all’evento una opprimente bolla di pesantezza a cui per i vivi è impossibile sottrarsi. I morti, intanto, ci insegna il bardo, stanno compiendo un percorso “altrove”, su una diversa frequenza –forse attigua e vicina, forse anche pietosa verso la stoltezza di noi che ci ostiniamo a pensare che la morte sia la fine di tutto.
La paura della morte è profondamente assisa nell’animo umano. Non bastano mille religioni, mille aureole, mille alberi della Bodhi né mille Raymond Moody a convincere i molti che la morte non determina la fine di nulla. Mille anche le cause possibili di questo ignobile sedimento antropologico: è per il nostro atavico senso di colpa; è perché ci si identifica erroneamente col corpo fisico; è l’attaccamento alle nostre cose materiali, a quella “roba” di cui scriveva Verga, che per taluni è l’unica dimensione di vita e che però diventa inutile di fronte alla morte.
Purtroppo non crediamo che il nostro amore né la nostra bellezza (fisica o spirituale) possano sopravvivere al processo di estinzione della vita. Forse è così, ma solo perché non comprendiamo pienamente né il concetto di trasformazione (o per meglio dire, di trasmutazione) né quello di ologramma (il film Matrix non ci ha insegnato niente). Continuiamo a restare seduti nell’antro di Platone davanti allo schermo fasullo delle ombre, più morti noi dei morti, che ci guardano ormai da oltre la soglia luminosa della caverna, la quale per loro non ha più segreti. Non c’è liberazione, restando sullo stesso piano su cui ha origine il problema, come insegna Einstein.
La soluzione è altrove e la indagano da sempre i profeti con e senza Bibbia, di cui Henry Fersko-Weiss è sicuramente un esponente.
Il suo fantastico e innovativo stile di pensiero ci avvicina in maniera del tutto originale a una reale soluzione di risveglio all’Arte di vivere, che altro non è che un diverso approccio alla morte e all’Arte di morire. Leggendo numerose storie di persone che, aiutate dai doula, le “levatrici del trapasso”, passano in rassegna, rievocano e trovano i punti focali della loro vita, si è subito portati a imparare ad applicare il suo ben sperimentato metodo alle vicissitudini dei propri cari e a tenerlo bene a mente anche per se stessi.
Da tempo autorevoli studiosi di spiritualità ci hanno proposto, in maniera frammentaria, tecniche quali la “ricapitolazione” della vita o il “recupero dell’anima”, utili a restituirci integrità e coerenza e a dare un senso alla nostra vita per migliorarla, da vivi. Ma in questo libro le storie dei doula ci mostrano come aprire questo raro tipo di conversazione anche con chi è giunto alla fine della propria vita, per aiutare quelle persone a sciogliere i nodi del passato e a migliorare circostanze, emozioni ed eventi del loro ultimo rito di passaggio.
Dai racconti delle esperienze dei doula si capisce bene quale sia la giusta strada per arrivare a parlare con un malato terminale di ciò che ha appreso dalla propria vita e di quale pensa sia il lascito più importante che sta per fare a figli e nipoti. Un lascito (anche creato insieme ai familiari e al doula sotto forma di oggetto concreto) destinato a sopravvivere alla sua morte e che già di per sé lenisce l’animo chi se ne sta andando. Ma darà anche sollievo a chi resta, insegnandoci a porre attenzione fin d’ora al senso della nostra vita, ogni minuto del presente. Il lavoro sulla fine della vita in realtà si dimostra un mezzo di continua rinascita alla consapevolezza di chi siamo e del perché siamo qui.
Se anche solo una minima parte delle persone in lutto sul sagrato di quella chiesa avesse letto le parole di questo libro, la bolla dello smarrimento di fronte alla paura e al mistero immenso della morte si svuoterebbe cedendo il posto inevitabilmente all’altra faccia, ingiustamente trascurata, della medaglia: la Celebrazione della Vita della persona che fisicamente non è più qui. E davvero, nella mente di tutti prenderebbero vita le parole di uno stupendo canto:
"La morte non è niente. Non conta.
Io me ne sono solo andato nella stanza accanto.
Non è successo nulla.
Tutto resta esattamente come era.
Io sono io e tu sei tu
e la vita passata che abbiamo vissuto così bene insieme è immutata, intatta.
Quello che eravamo prima l'uno per l'altro lo siamo ancora.
Chiamami con il vecchio nome familiare.
Parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce,
Non assumere un'aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.
Sorridi, pensa a me e prega per me.
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima.
Pronuncialo senza la minima traccia d'ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto.
È la stessa di prima,
C'è una continuità che non si spezza.
Cos'è questa morte se non un incidente insignificante?
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall'altra parte, proprio dietro l'angolo.
Va tutto bene; nulla è perduto.
Un breve istante e tutto sarà come prima.
E come rideremo dei problemi della separazione quando ci incontreremo di nuovo!"
(Henry Scott Holland, La morte non è niente. 1910)
- La traduttrice Nicoletta Cherubini
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