La doula della morte: l'accompagnamento al morente e il sostegno ai famigliari
Nuova Saggezza
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Credo che una delle cose che fa più paura al giorno d’oggi sia la morte: nella nostra società moderna e occidentale, abbiamo diviso la vita dalla morte, considerandole come due cose completamente all’opposto e incompatibili fra di loro piuttosto che come un’evoluzione naturale, un cerchio che non ha né inizio né fine, dove tutto si tramuta senza interruzione. La morte, come parte della vita, dovrebbe essere un passaggio da affrontare in modo consapevole e senza paura e soprattutto accompagnando la persona morente, facendo in modo che questo passaggio sia il più naturale possibile. Allo stesso, i famigliari che si trovano a dover gestire un lutto, non andrebbero lasciati a se stessi. Su come affrontare il fine vita e come restare accanto a un malato che sta per morire, e dare supporto ai famigliari ce ne parla Henry Fersko-Weiss nel suo libro Gli Ultimi Giorni della Vita.
Romina Rossi
La morte è un tabù
“La morte somiglia a un oscuro e doloroso segreto di famiglia che si cerca di tenere nascosto. Se però ci si pensa, si avverte un forte senso di vulnerabilità. E come se credessimo che non pensare alla morte ci terrà al sicuro, proteggendoci dalla sua verità e perfino dalla sua inevitabilità”.
Con queste parole si apre il libro di Henry Fersko-Weiss, Gli Ultimi Giorni della Vita, un delicato e compassionevole resoconto della sua esperienza come doula della morte, una doula, cioè che si prende cura del morente e della sua famiglia e li assiste negli ultimi istanti di vita, accompagnandoli nel doloroso travaglio della morte.
Noi siamo la società che meno è pronta ad affrontare la morte, non la sappiamo affrontare, pensateci: abbiamo fatto di tutto per nasconderla. Le persone anziane no muoiono più a casa loro: anche quelle che muoiono di morte naturale, nella maggior parte dei casi lo fa in una struttura per anziani.
Cerchiamo di esorcizzarla, trasformandola in uno spettacolo, l’ultimo degno di essere visto, motivo per cui al passaggio della bara partono applausi scroscianti, come se si stesse applaudendo la performance di un attore a teatro.
Chi riceve una diagnosi di una malattia terminale, si aggrappa alla speranza: di una guarigione insperata, di avere più tempo, di una svolta positiva. Anche i medici evitano di affrontare il discorso morte con i propri pazienti, per paura che ciò possa scatenare una tempesta emotiva.
Così facendo si elude l’accettazione della morte, un atteggiamento che non fa che portare a discorsi superficiali e inadeguati tra il morente e i suoi cari. Fresko-Weiss non potrebbe descrivere meglio il clima che si crea quando un caro sta morendo: “Le opportunità di esplorare il significato della vita sono ignorate. Le emozioni non trovano una loro espressione.
Morire diventa un’inarrestabile spirale discendente fatta di ansia e sfinimento, via via che le famiglie vengono sopraffatte dalle attività necessarie per prestare assistenza al morente e dai dubbi sulla loro capacità di farlo correttamente. Nel vuoto e nella dolorosa tristezza che seguono un decesso, il dolore è messo in ombra da un pesante senso di colpa per aver coltivato troppo a lungo la messinscena o il segreto”.
Accettare la morte non renderà la mancanza di una persona cara meno dolorosa, il lutto ci deve essere e deve avere le sue fasi per poter arrivare a una elaborazione, accettazione e continuazione della propria vita, ma lo renderà più sostenibile, meno impattante sulla propria salute e meno sfibrante sia per chi se ne va sia per chi resta.
Non voglio assistere alla mia morte
Avete mai pensato a come vorreste morire? Quando ero ragazzina, mi capitava di sentire dire che Tizio è morto nel suo letto mentre dormiva. E chi apprendeva la notizia, dopo i primi minuti di smarrimento, affermava che quello era il modo più bello di morire. In una celebre frase, Woody Allen dice: “Non è che non ho paura di morire, è solo che non voglio esserci quando accadrà”. Frase che sicuramente farà sorridere molti e li troverà d’accordo con il regista americano.
Più che la morte in sé, è il processo della morte a spaventare: se da un lato oggi la vita si è allungata anche solo rispetto a cinquantanni fa, altrettanto non possiamo dire della qualità della vecchiaia, che in molti casi è una sofferenza alimentata dai farmaci. A ogni nuovo dolore o patologia viene prescritto un altro farmaco, un esame diagnostico dietro l’altro e quando la vita non ce la fa più, si tenta di fermarla attaccando al corpo esausto tubi e sonde.
Non voglio entrare nel merito della diatriba sull’eutanasia o l’accanimento terapeutico, ognuno è libero di pensarla come vuole, quello su cui vorrei puntare l’attenzione è che ci sono modi diversi di morire. Quello a cui siamo abituati noi è nel letto di un ospedale o di una struttura apposita, spesso asettica, dove sia il morente che i famigliari si sentono completamente spesati, circondati da un via vai continuo di personale medico e infermieri. Spesso nonostante le cure più avanzate, le persone muoiono nel modo più sterile e solitario possibile. Sono molto pochi coloro che muoiono nel proprio letto, all’interno delle rassicuranti mura in cui hanno vissuto, circondati dai famigliari.
Ma è davvero questa la normalità, il modo “giusto” di morire? Secondo Fresko-Weiss no, e io non posso che essere d’’accordo con lui. Ed è qui che diventa fondamentale il lavoro di una doula della morte.
Il rispetto del morente
La Fondazione Floriani in collaborazione con la Federazione Cure Palliative ha stilato La Carta dei diritti dei morenti, che stabilisce 12 diritti inalienabili dei malati terminali. La Carta recita che chi sta morendo ha diritto:
- A essere considerato come persona sino alla morte.
- A essere informato sulle sue condizioni, se lo vuole.
- A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere.
- A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà.
- Al sollievo del dolore e della sofferenza.
- A cure ed assistenza continue nell’ambiente desiderato.
- A non subire interventi che prolunghino il morire.
- A esprimere le sue emozioni.
- All’aiuto psicologico e al suo conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede.
- Alla vicinanza dei suoi cari.
- A non morire nell’isolamento e nella solitudine.
- A morire in pace e con dignità.
All’interno della Carta si legge: “Il rapporto tra il malato e il personale sanitario, soprattutto nella struttura pubblica, è oggetto da tempo nel nostro Paese di critiche che provengono sia dall'opinione pubblica sia dagli addetti ai lavori. Il disagio nasce principalmente da un eccesso di tecnicismo, dalla scarsa attenzione alle esigenze delle persone malate e dal perdurare di atteggiamenti paternalistici da parte dei medici. Gli operatori, infatti, in nome di un preteso miglior vantaggio del malato, tendono a decidere per lui senza informarlo adeguatamente. E così facendo, lo privano della possibilità di operare scelte autonome riguardo ad un bene così essenziale e personale come la salute.
In omaggio ad una concezione antiquata della Medicina, attenta più alla malattia che al malato, il paziente si trova declassato da soggetto ad oggetto delle decisioni che lo riguardano. Va, comunque, ribadito che una relazione di tipo paternalistico fra il medico e il paziente non rappresenta soltanto un comportamento eticamente scorretto, ma anche una violazione di specifici diritti dei cittadini.
Questa pratica è fonte di disagi particolarmente profondi e rappresenta una violazione più grave dei diritti nel caso di malati prossimi alla morte. Nei confronti di queste persone, particolarmente vulnerabili, il paternalismo medico spesso si accentua, grazie anche alla complicità dei famigliari, che, spinti da un intento protettivo, chiedono che il loro congiunto sia tenuto all’oscuro della reale situazione. Divenendo a loro volta i destinatari dell’informazione e i titolari delle decisioni”.
Il Comitato Etico che ha stilato la Carta si auspica lo sviluppo di una nuova consapevolezza dei bisogni del morente, che porti ad nuova cultura del morire, che purtroppo non è ancora presente nella nostra mentalità.
Il ruolo della doula della morte: il sostegno a morente e parenti
Per fortuna qualcosa si muove, seppur non nel nostro Paese: negli Stati Uniti la figura della doula della morte sta diventando abbastanza comune. L’Autore del libro Gli Ultimi Giorni della Vita spiega che l’idea di fondare queste levatrici della morte gli è venuta quando lavorava come assistente sociale nelle case di cura.
“Migliaia di volte, – racconta l’Autore – mentre ero impegnato a seguire le persone morenti e le loro famiglie in una grande casa di cura di New York City, avevo assistito a decessi tutt’altro che ideali: un paziente che era stato portato di corsa in ospedale, sebbene volesse morire a casa sua; un marito o una moglie che si erano addormentati mentre il coniuge moriva nella stanza accanto, poiché troppo sfiniti per restare svegli o perché non avevano riconosciuto i sintomi della morte imminente; un figlio adulto che non era stato chiamato al capezzale del proprio genitore a raccoglierne l’ultimo respiro, perché un’infermiera privata si era arrogata la responsabilità di “proteggere” quel figlio dal presunto dolore di assistere alla morte. Potrei andare avanti così, con altri esempi di casi che avevano sottratto, sia ai morenti che ai loro cari, significato e pace mentale, per colpa di una concezione sbagliata della morte o di una errata preparazione ad affrontarla – perfino nell’ambito, più illuminato e aperto, dell’hospice”.
Così nel 2003 decide di seguire l’esempio di un’amica doula (una figura professionale, non medica e non sanitaria, che si occupa del sostegno emotivo e del benessere della donna e della famiglia dalla gravidanza fino al primo anno di vita del bambino e offre accudimento pratico e un sostegno intimo e confidenziale) e di applicarlo a chi sta morendo, offrendo sostegno al morente e alla sua famiglia.
“Alla prima lezione che tenni, alla fine del 2003, erano presenti diciassette studenti. L’inizio del 2004 ci vide diventare le prime doule della morte negli Stati Uniti d’America, che accompagnavano le persone morenti nei loro ultimi giorni di vita. Da allora ho assistito centinaia di persone nel loro processo di morte e ho insegnato a quasi duemila persone le competenze professionali necessarie per diventare doula della morte, o semplicemente per aiutare i loro amici e le loro famiglie o comunità”.
Ma cosa fa nello specifico una doula della morte?
Accompagna il malato e la sua famiglia verso il momento del distacco, con un approccio che comprende tre diverse aree di intervento:
- Incentrato sulla persona morente, impegnata a riflettere sulla propria vita e a pianificare i suoi ultimi giorni di vita secondo i propri desideri. Aiutare il morente a riflettere sulla propria vita, lo fa sentire orgoglioso dei propri successi, a comprendere il senso della propria esistenza e a sentirsi positivamente realizzato; inoltre è in grado di riconoscere l’eredità che lascerà dietro di sé. Se però non supera questa crisi evolutiva, finirà per convincersi che la propria vita sia andata sprecata e proverà un senso di rimpianto, amarezza e disperazione. Il percorso che permette di affrontare gli interrogativi fondamentali di questa fase include l’introspezione, il tenere un diario, la reminiscenza, il riesame della propria vita e talvolta anche un’esplorazione profonda fatta insieme ad altri. Per svolgere questo lavoro in modo efficace, la persona deve condurre un’analisi seria e strutturata. Deve cioè prendere in considerazione sia i successi e gli insegnamenti che ha ricevuto nella vita, sia gli insuccessi, le idee abbandonate e le questioni rimaste in sospeso.
- Incentrato sullo sforzo di tener fede al piano previsto per quegli ultimi giorni. Spiega Henry Fersko-Weiss: “Lavorare sul significato e sul lascito può sicuramente rivelarsi utile per invertire parzialmente quell’impatto, poiché offre al morente uno scopo e un maggiore controllo su come affrontare il processo di morte. Un altro approccio che può ridare un senso di autonomia e autodeterminazione al morente consiste nella pianificazione degli ultimi giorni di vita. Quando un malato inguaribile arriva a quel punto della malattia, non sarà più in grado di parlare per sé né di prendere decisioni su come gli sarà fornita assistenza. Questo spiega perché pensare in anticipo a queste scelte e fare “piani per la veglia” sia così importante”.
- Incentrato sul periodo post morte, quando famigliari e amici del defunto riesaminano le esperienze che hanno vissuto durante il processo di morte e iniziano a elaborare il lutto. Ecco come lo spiega l’Autore di Gli ultimi giorni della vita: “Da tre a sei settimane dopo il decesso, una o più doule incontreranno varie volte la famiglia per aiutarla a rielaborare l’esperienza del trapasso e per affrontare le prime fasi di elaborazione del lutto. La tempistica di questo aspetto del lavoro di una doula è del tutto intenzionale. Subito dopo una perdita i familiari tendono a darsi molto sostegno reciproco, magari restando per giorni o perfino per una intera settimana a fare compagnia a chi è in lutto. Amici e vicini manifestano molte attenzioni, portando cibo, telefonando e facendo spesso visita. Tuttavia, dopo qualche settimana la sollecitudine tende in gran parte a scemare: la gente torna alla propria vita, dedicando meno attenzioni a chi è in lutto. È allora che il vuoto lasciato dalla morte comincia realmente a farsi sentire e che il dolore prende piede, il che spiega perché quello è il momento di cominciare a rielaborare il decesso”.
Chiudo questo articolo, lasciandovi con le toccanti parole dell’Autore, auspicando che anche in Italia si possa diffondere presto la figura della doula della morte:
“Dopo aver svolto la professione di doula per oltre dodici anni e aver accompagnato centinaia di decessi, ho acquisito la certezza che l’approccio doula permette ai morenti, ai familiari e caregiver di accedere a un significato più profondo e che garantisce loro un maggior grado di benessere. Fa sì che un’esperienza caratterizzata da ansia, paura e sofferenza si trasformi in un’altra, fatta di fiducia, sacralità e teneri momenti di amore reciproco”.
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