Pesticidi a tavola: intervista a Saverio Pipitone
Salute e Benessere Naturali
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Il nuovo libro di Saverio Pipitone tocca un tema di fondamentale importanza, e che dovrebbe stare a cuore a tutti noi, ma è anche una realtà molto scomoda con cui fare i conti. Pesticidi a Tavola – I veleni autorizzati che mangiamo e respiriamo. Cosa sappiamo veramente sui pesticidi? Sulla loro storia e su come effettivamente influenzano e contaminano (molto più di quanto pensiamo) il nostro cibo? Queste e tante altre domande le abbiamo poste proprio a Saverio, autore del libro.
Redazione Web Macro
Saverio, si fa presto a dire "pesticidi" ma forse non tutti sanno esattamente di cosa parliamo. Ci puoi spiegare brevemente di cosa si tratta?
I pesticidi sono elementi chimici sviluppati in laboratorio per distruggere forme di vita. La loro origine risale alla Prima guerra mondiale quando il chimico tedesco Fritz Haber inventò delle miscele gassose tossiche per usarle in battaglia e già all’epoca pensò che ristabilita la pace, le stesse sostanze potessero servire all’agricoltura. Infatti furono poi adoperate contro insetti, funghi, microbi ed erbacce per semplificare le lavorazioni, evitare perdite nei raccolti e produrre di più, ma sfasciando il ciclo biologico degli ecosistemi.
L’ecologista biologa Rachel Carson, nel best seller Primavera Silenziosa del 1962, li chiamava “elisir di morte” per indicarne l’immenso potere velenoso su fauna e flora, in un mondo consumato nel giro di un solo secolo da inquietanti tecno-manipolazioni della natura.
Quali possono essere le conseguenze di una esposizione prolungata a questi pesticidi? Quali danni causano al nostro organismo?
Almeno 20.000 ricerche pubblicate nella letteratura scientifica documentano la minaccia sanitaria dei pesticidi con il rischio di gravi malattie, tra cui infertilità, tiroide, linfomi, leucemie, diabete, ipertensione, artrite reumatoide, insufficienza renale, obesità, cancro, autismo, SLA, Alzheimer e il Parkinson, che dal 2012 è riconosciuto in Francia come malattia professionale agrochimica.
Gli agricoltori sono esposti in misura maggiore ai pesticidi, soprattutto quando li usano senza protezioni, anche se degli studi hanno dimostrato che l’abbigliamento da lavoro non protegge al 100%. Un’elevata esposizione ai pesticidi riguarda pure i residenti nei luoghi di campagna in quanto li respirano e a differenza del contadino non hanno nessuna difesa.
A dicembre 2018 il gruppo facebook No Pesticidi ha presentato 25mila firme alla Camera dei Deputati per tutelare la popolazione che vive in prossimità delle zone agricole dall’effetto deriva, cioè dalla dispersione dei veleni pesticidi, chiedendo l’applicazione di due regole fondamentali:
- distanze di sicurezza non inferiori ai 50 metri dalle abitazioni e dalle colture biologiche;
- obbligo di apporre cartelli di pericolo e di avvisare i confinanti almeno 72 ore prima del trattamento fitosanitario.
La petizione sta proseguendo per raggiungere le 50mila firme ed è possibile sottoscriverla sul sito www.avaaz.org o collegandosi al gruppo.
La contaminazione proviene parimenti dall’alimentazione e frequentemente sono ritrovati dei mix di tracce pesticide nei cibi che consumiamo ogni giorno, dalla colazione alla cena. Le autorità ci tranquillizzano asserendo che i residui sono nei limiti di legge, ma è opportuno informare che il livello di nocività è misurato sulla singola molecola e non vengono valutati né l’insieme di elementi coesistenti nello stesso prodotto né la continuità espositiva quotidiana a parecchie sostanze dentro diverse derrate nutrizionali, con la moltiplicazione degli effetti tossici.
Nell’organismo umano possono colpire le cellule e perturbare il sistema ormonale, strettamente legato agli apparati neurologico, psichico e immunitario, comportandosi da interferenti endocrini e disordinando il metabolismo di riproduzione e accrescimento della vita, con possibili patologie di origine fetale nei bambini e negli adulti.
Possiamo fare qualcosa per riuscire ad evitarli?
Per quanto riguarda l’alimentazione, che dovrebbe sanare anziché ammalare, è essenziale mangiare biologico per non assorbire artefatti chimici ed eventualmente eliminare quanto già assimilato. La rivista Jama Internal Medicine ha pubblicato uno studio epidemiologico – condotto dagli istituti di ricerca francesi INRA, INSERM, CNAM e Università Paris-XIII – che ha coinvolto circa 69mila volontari, monitorati tra il 2009 e il 2016, risultando che un assiduo consumo di cibi biologici determina un 25% di probabilità in meno di ammalarsi di tumore e i ricercatori suppongono che ciò avviene perché non si assimilano residui di pesticidi.
In Italia, un gruppo di associazioni e imprese ecologiste, da Federbio al WWF e a NaturaSì, ha eseguito un biomonitoraggio su una famiglia romana composta da genitori quarantenni e figli piccoli, analizzandone le urine e riscontrando preoccupanti tracce di pesticidi tra cui il pericoloso Clorpirifos, portatore di disturbi allo sviluppo cerebrale; alla famiglia vennero poi somministrati per 15 giorni solo alimenti biologici e, rifacendo il test, è stato rilevato un abbattimento degli inquinanti chimici e dei primi segnali positivi di decontaminazione del corpo.
Altro biomonitoraggio è stato effettuato dall’Istituto Rizzoli di Bologna e dall’Università Politecnica delle Marche su un campione di abitanti della Val di Non – zona molto esposta all’agrochimica – che presentavano alti livelli di Clorpirifos nelle urine e una ridotta attività di riparazione del DNA, ma dopo il consumo di 50 grammi di miele melata per 10 giorni si è osservata una riduzione dei danneggiamenti genetici. Nell’ambito del medesimo studio, è stato mostrato che il miele bio di tipo acacia, castagno, melata e arancio è pieno di molecole vegetali dei polifenoli con capacità antiossidante e benefica sull’organismo, che stimola un’attività enzimatica di riparazione genetica.
Una ricerca dell’Università della California a Davis ha documentato che i polifenoli si trovano in elevate quantità nelle piante coltivate biologicamente ed è stato ipotizzato che li producano come arma di difesa naturale contro parassiti e malattie, ma lo stesso non avviene nelle coltivazioni convenzionali in quanto abituate dalla chimica a non reagire, scollegandosi dall’habitat ambientale circostante, con uno sbarramento alla sostanza benevola.
Quali sono i motivi, secondo te, per cui le autorità non intervengono, se non in maniera molto blanda, sulla questione pesticidi?
Il motivo principale è che ci sono enormi interessi economici nel mercato dell’agrobusiness a vantaggio di un numero ristretto di multinazionali, con il pieno sostegno dei governi, per mantenere un sistema agricolo monoculturale e intensivo, basato sulla chimica sintetica, con un unico scopo comune: il profitto monetario.
Nell’Unione Europea esistono 500 sostanze pesticide autorizzate, di cui 200 tossiche schedate come pericolose, ed altre 700 proibite dal 2009, ma su oltre 300 elementi vietati vige una deroga straordinaria poiché certe coltivazioni industriali non funzionano senza di esse. Oltre a concedere le autorizzazioni per questi veleni, talvolta avvalendosi di studi fornitegli dagli stessi produttori agrochimici, le autorità elargiscono ingenti contributi pubblici, con i nostri soldi, per potenziare una realtà che impatta gravemente su ambiente e salute.
In pratica pagano chi inquina. Ad esempio, su 41,5 miliardi di euro di fondi europei destinati all’Italia, il 97,7% va all’agricoltura convenzionale e un irrisorio 2,3% a quella biologica, in modo del tutto sproporzionato dato che quest’ultima copre il 15% della superficie agricola nazionale. Le medesime autorità sborsano poi il denaro per la cura delle malattie provocate dalla chimica agricola: è stato stimato che in Europa i costi a carico della collettività per patologie da esposizione agli interferenti endocrini, di cui fanno parte i pesticidi, ammontano a 163 miliardi di euro all’anno. In tale contesto ci guadagna Monsanto (USA) che vende i pesticidi e Bayer (Germania) che vende i farmaci, le quali nel giugno 2018 si sono unite, la tedesca ha comprato la statunitense, strutturando un esclusivo colosso mondiale, di cui primi azionisti sono dei grossi gruppi finanziari.
A volte nei commenti su internet leggo frasi del tipo «le multinazionali hanno in mano la vita di tutti gli essere umani» oppure «gli azionisti delle multinazionali dovrebbero vergognarsi», ma c’è da dire che tra gli speculatori potremmo esserci persino noi perché quando la banca ci propone di rendere remunerativi i risparmi, li colloca nel canale dei fondi di investimento ed è molto probabile che il denaro vada a finire alle multinazionali che critichiamo.
Come mai nel tuo libro ti concentri particolarmente sul glifosato? Cosa dovremmo sapere al riguardo?
Il glifosato è il killer erbaceo più usato nella storia con oltre 8,6 miliardi di kg spruzzati su un terzo della Terra dal 1974. Oggi lo si trova quasi dappertutto, dagli alimenti alle acque, suolo e aria, con livelli di residui spesso superiori rispetto agli altri pesticidi. Ci sono migliaia di lavoratori agricoli e ambientali che lo accusano di averli fatti ammalare.
Negli Stati Uniti vi sono più di 4.000 azioni legali contro Monsanto, che incolpano di avere nascosto alle autorità regolatorie e al pubblico la nocività del diserbante Roundup a base di glifosato. Emblematico è il caso del giardiniere Dewayne Johnson che per tanti anni ha lavorato in un distretto scolastico della California e usava Roundup; quando gli vennero delle lesioni sulla pelle, contattò la multinazionale per sapere se vi fosse un qualche legame con il diserbante, ma non ebbe nessuna risposta, contraendo poi il cancro nel 2014. Ad agosto 2018, il tribunale di San Francisco con un verdetto unanime della giuria ha condannato Monsanto ad un risarcimento milionario a favore di Johnson, con la motivazione di non avere adeguatamente avvertito l’utente sulla pericolosità dell’esposizione all’erbicida.
L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), appartenente all’organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), ha classificato il glifosato come “probabile cancerogeno per l’uomo”, mentre altre agenzie regolatorie europee e internazionali sostengono che non lo sia, nonostante diversi studi ne abbiano dimostrato la nocività.
In Italia è in corso un’importante ricerca a lungo termine sul glifosato effettuata dall’Istituto Ramazzini di Bologna, che ha deciso di analizzarlo per cercare di risolvere le incertezze sulla sua cancerogenicità, sollevate dalle divergenti valutazioni delle varie autorità regolatorie. Lo studio dovrebbe chiarire una volta per tutte se le concentrazioni di glifosato ammesse come residuo di dose giornaliera negli alimenti sono davvero sicure e se così non fosse, si avrebbe un vero e proprio problema di salute pubblica*.
*Per sostenere la ricerca si può partecipare alla raccolta fondi all’indirizzo www.glyphosatestudy.org oppure inserire in sede di dichiarazione dei redditi il codice fiscale dell'Istituto, numero 03722990375, nella sezione del “5x1000”.